Dal 19 marzo al 17 luglio 2022 il Magazzino delle Idee di Trieste presenta la mostra Io, lei, l’altra – Ritratti e autoritratti fotografici di donne artiste, a cura di Guido Comis in collaborazione con Simona Cossu e Alessandra Paulitti. Prodotta e organizzata da ERPAC – Ente Regionale per il Patrimonio Culturale del Friuli Venezia Giulia – l’esposizione ripercorre, attraverso novanta opere, la fotografia degli ultimi cento anni e permette di valutare la nuova concezione della donna e il suo ruolo attraverso una successione di straordinarie immagini da Wanda Wulz a Cindy Sherman, da Florence Henri a Nan Goldin.
Il ritratto e l’autoritratto fotografico sono una testimonianza straordinaria del difficile processo di affermazione di sé e della conquista di una nuova identità sociale da parte delle artiste donne nel Novecento e nei primi anni del nuovo secolo. I ritratti e gli autoritratti sono luoghi di confronto, ma anche di conflitto fra espressioni diverse dell’identità. A forme convenzionali di rappresentazione si contrappongono nuovi modi di esprimere la propria personalità; i ruoli consolidati della rappresentazione della donna, le pose ripetitive mutuate dai ritratti tradizionali cedono spazio a modalità di espressione inedite.
Da modella al servizio di un artista la donna si trasforma in figura attiva e creativa. Ai ritratti eseguiti da uomini – come Man Ray, Edward Weston, Henry Cartier-Bresson, Robert Mapplethorpe, solo per citare alcuni dei fotografi presentati in mostra – si accostano ritratti e autoritratti di donne artiste e fotografe, tra cui Wanda Wulz, Inge Morath, Vivian Maier, Nan Goldin, Cindy Sherman, Marina Abramović.
La mostra è suddivisa in sezioni, ognuna delle quali rende conto di una diversa forma di rappresentazione dei ruoli che le donne interpretano nelle fotografie. La sezione “Artiste e modelle” è dedicata alle donne che sono state creatrici e allo stesso tempo hanno prestato i loro volti e i loro corpi per opere altrui, come è il caso di Meret Oppenheim, Tina Modotti, Dora Maar.
La sezione intitolata “Il corpo in frammenti” raccoglie gli autoritratti che restituiscono immagini di corpi parziali, riflessi in specchi fratturati, con l’epidermide percorsa da linee che ne interrompono l’integrità, come se in ciò si rispecchiasse la difficoltà di rappresentarsi. I ritratti degli anni Settanta che hanno per protagoniste Valie Export, Jo Spence e Renate Bertlmann mimano ironicamente l’immagine tradizionale della donna come madre, donna di casa o oggetto sessuale. “Una, nessuna e centomila” raccoglie gli autoritratti delle artiste che, da Claude Cahun a Cindy Sherman, hanno utilizzato il proprio corpo per interpretare attraverso mascheramenti identità o stereotipi diversi. Un’altra sezione affronta il tema degli stereotipi nella rappresentazione dalle identità culturali e sessuali, un’altra ancora a quelli nella definizione dei canoni di bellezza mentre alcune fotografie sono dedicate ad artiste accanto a proprie creazioni come nel caso del celeberrimo ritratto di Louise Bourgeois eseguito da Robert Mapplethorpe.
La mostra è accompagnata dal catalogo Io, lei l’altra – Ritratti e autoritratti fotografici di donne artiste edito da Skira con immagini di tutte le opere esposte e testi di approfondimento di Guido Comis, Anne Morin, Giampiero Mughini, Anna D’Elia, Laura Leonelli e Alessandra Paulitti.
Questo titolo della mostra di Trieste, l’ultima a cui ho partecipato, mi appartiene fino all’anima. Per 37 anni ho fotografato: nudo femminile maschile transessuale e me medesima. Ho iniziato a dipingere e così successivamente in tutte le mie forme artistiche nella completa ignoranza. Autodidatta in ogni forma di espressione che ho usato.
Tutto lo scibile umano che amo e odio in pari misura.
La mia vita è la mia arte la mia arte è la mia vita. Da ogni incontro nasceva una storia di un’ora di mesi di anni.
Ho iniziato a dipingere e così successivamente in tutte le mie forme artistiche nella completa ignoranza. Autodidatta in ogni forma di espressione che ho usato.
“Rosangela Betti è un’artista a tutto tondo”. Giampiero Mughini
1967 pittura. Facevo delle foto a tutte le mie amiche e amici che mi venivano a trovare. Spogliati ti faccio le foto. Mi servivano per poi farne dei dipinti. Ma poi non ho mai copiato una sola foto era in mémoire. Poi è arrivata la scultura in memore del primo giorno alla scuola d’arte inferiore a Pesaro. Grazie a mia madre che mi disse: non vuoi studiare fai questa scuola almeno impari un mestiere. Entro: una sala illuminata dal sole al centro una statua bianca di gesso. David di Michelangelo con foglia di fico sopra qualcosa che ancora non conoscevo. Ho sempre avuto la passione di fotografare le persone nude. Per il femminile…loro erano belle giovani libere… l’altra parte di me e mi innamoravo e le amavo…il maschile: mi interessava il fisico che mi ricordava l’arte greca Michelangelo Caravaggio… ho amato solo un uomo il mio e devo tutto a lui solo a lui se sono diventata quello che sono. Soprattutto dopo la sua morte avvenuta dopo 10 anni di matrimonio. Aveva 39 anni io 32 e due figlie di 10 e 8 anni. 1979 changement radical dans ma vie. Ottobre 1980 inizio a fotografare in maniera diversa. Sempre nudi sviluppando e stampando le mie fotografie. Dopo un anno parto per Milano fotografie 10×15 su passepartout fatto da me. avevo fatto fare una valigetta in legno con finiture di cuoio. Alla stazione mi chiedevano dove le avessi comperate. Mia creazione. 1982 prima mostra a Brescia ed ho continuato fino al 2017.
I transessuali. Affascinante creature. Un’unione di uomo- donna ansamble…ma nonostante che avessero la parte femminile e maschile non mi eccitavano al pensiero di…io con i miei modelli/e non ho mai scopato. Ma ho fotografato i miei/le mie amanti. Le femmine la parte più importante. Mi innamoravo le amavo e soprattutto adoravo il loro cervellino bacato. Un piacere della mente che fisicamente non ha eguali mi mandava in visibilio…nel loro non volermi a parole e non in azioni…mi volevano in esclusiva negandosi al mio non chiedere niente. Mi eccitava la loro voglia di me negandosi più di ogni altra cosa…
Il maschile…mi eccitava fare sesso ma devo dire che uno su mille ci riesce ad appagare una donna. E si che ne ho avute moltissime di occasioni ma un’ora al massimo e nemmeno e poi mai più. Fedele al primo amore siempre. Mai più legami di nessun genere. Usati e basta.
Video art: il primo Io-Io un super 8. Poi cassette poi digitale. “Suicidme” ultimo. Chiude la mia storia.
L’arte la mia salvezza. Ho sempre lavorato per me per sviscerare tutti i miei sentimenti e navigavo nella mia vita soffocando…
La nascita è una volgarità che io non volevo. La vita è meschina e dolorosa un calvario anche nell’amore nella bellezza. La vecchiaia se non muori prima ti tocca. La morte è l’unica soluzione. L’importante è vivere con dignità e soprattutto morire con dignità. Senza pietismi o rotture del cazzo. La pietà non esiste. Tutto nasce vive muore. L’arte salvifica mi ha aiutata a sopportare l’inquieto vivere e lasciare una testimonianza del nostro essere come siamo del nostro pensiero. Il mio. Un’ossessione… ho fatto con vari mezzi espressivi sempre le stesse cose…ed è stata la mia vita.
Dal 1980 sto scrivendo un diario. Come la tela di Penelope scrivo cancello riscrivo aggiusto. I ricuerdi mi tengono compagnia. Amen.
Ne parlo da appassionato collezionista. Nella storia della fotografia moderna, e dunque nella storia della fotografia italiana, le donne hanno avuto un ruolo ragguardevole. In una duplice veste, ora come fotografe e ora come modelle. E a parte il caso in cui la fotografa e la modella sono la stessa persona, com’è nell’inesauribile sequenza di autoritratti in cui la fotografa americana Francesca Woodman (nata nel 1958, morta suicida a 22 anni nel 1981) ritrae se stessa nella Roma di metà degli anni Settanta in cui viveva da studentessa straniera: e io ancora mi mordo le mani per non avere comprato sue foto originali che nel 1976 una libreria romana metteva in vendita a 100 mila lire l’una, laddove molti anni dopo ho pagato una sua foto quindicimila euro o forse più e li valeva tutti.La stessa donna che fa da fotografa e da modella è ancora il caso di alcune mirabili fotografie della torinese Giulia Caira (che oggi purtroppo ha lasciato perdere la fotografia) che ero stato felice di comprare una ventina d’anni fa, mirabolanti autoritratti di una donna che sembrava sgorgare da un set cinematografico, e invece era Giulia che fotografava se stessa nella cucina di casa sua. Oppure il caso in cui la fotografa è la madre, Irina Ionesco (nata nel 1930), e la modella una volta a settimana è sua figlia adolescente, Eva, di cui la madre va scoprendo e come registrando la sua sbocciante femminilità, e andrà a finire in tribunale con la figlia che farà causa alla madre avere “approfittato” di lei quando non aveva neppure dieci anni.(Personalmente ritengo quelle foto castissime e ne ho alcune nella mia collezione.)
Questi casi specialissimi a parte, sempre stanno a sé gli incontri tra un fotografo/fotografa e le sue modelle. Nel senso che tra gli uni e le altre deve crearsi una particolare empatia, una comunicazione sensuale e complicità e un reciproco dare e avere. Senza quelle modelle non ci sarebbero state quelle fotografie, assolutamente no. Non una delle migliaia e migliaia di foto scattate a Brigitte Bardot nel Novecento avrebbe il risalto che hanno quelle sue foto dov’è accampata la donna “che creò l’uomo”, la donna che creò la sensualità moderna, quella che eresse un tempio al corpo femminile e alle sue valenze. Per andare a una cultura che ci è particolarmente attigua, quella francese, non ci sarebbero state le memorabili (ed eroticamente incandescenti) foto scattate da Man Ray ad accompagnare uno dei libri leggendari della letteratura surrealista, il ”1929” di Louis Aragon e Benjamin Péret pubblicato in 215 copie nel 1929, se il corpo della ragazza che in quelle foto ci sta dando sotto alla grande non fosse quello di Kiki de Montparnasse, la musa e amante di Man Ray (era nata nel 1901) di cui su Internet troverete 1 milione e 780mila risultati che la riguardano. Così come non ci sarebbe stato un libro fotografico di Serge Gainsbourg che è davvero un peccato se non lo aveste mai visto. Conoscete certamente Gainsbourg(nato a Parigi nel 1928, morto di un attacco di cuore nel 1991) in quanto inarrivabile cantautore, e in quanto accesso frequentatore di magnifiche creature femminili quali la stessa Bardot e Jane Birkin delle cui foto era tappezzata la sua casa di rue de Verneuil al Quartiere latino. Ebbene da fotografo il suo exploit più un alto è un libro pirotecnico del 1981 dal titolo “Bambou et lespoupés”, interamente dedicato a una voluttuosa esplorazione del corpo della sua ultima moglie, la modella e cantante francese Caroline von Paulus detta “Bambou” (nata nel 1959). La cui disponibilità e complicità nel fare di questo libro quello che è, ossia un concentrato di erotismo tanto raffinato quanto ossessivo, è totale. Ho detto totale.
L’ho fatta lunga prima di arrivare al nodo centrale di questo mio intervento, ossia il rapporto tra la fotografa e mia cara amica Rosangela Betti e le sue modelle? Spero di no. Di questo rapporto voi avete una bruciante esemplificazione nelle foto incluse in questa mostra, le foto di Rosangela che ritraggono la scrittrice italiana e anch’essa mia amica Isabella Santacroce (nata a Riccione nel 1970). E sono anch’esse foto che scandiscono una vita, che raccontano un rapporto tra due donne, la loro amicizia, la loro reciproca attrazione, il loro reciproco e intenso dare e avere.
Isabella l’avevo conosciuta prima di conoscere Rosangela. Ero stato difatti fra i primissimi lettori del suo primo e incantevole libro, il “Fluo” del 1995 pubblicato dal geniale editore romano Castelvecchi e che ha per sottotitolo “Storie di giovani a Riccione”. Beninteso poi ne ho letti molti altri dei suoi romanzi, ma anche se so che a Isabella non fa piacere quel suo primo libro lo giudico il suo più bello, un vero e proprio miracolo generazionale. La generazione cui l’editor einaudianoPaolo Repetti attribuì la qualifica di “Gioventù Cannibale”, nel senso che quegli scrittori e scrittrici si erano mangiati in un solo bocconetutto ciò su cui si assestavano le generazioni precedenti. Un altro di quella generazione, e anche lui autore di precoce qualità era stato Aldo Nove (nato nel 1967, aveva esordito anche lui da Castelvecchi col libro del 1996 “Woobinda e altre storie senza lieto fine”). Ero a casa di Nove quando lui mi passò al telefono Isabella. Di cui sono poi divenuto amico, tanto che quando lei faceva una puntata a Roma era ospite dell’appartamentino della mia casa romana riservato agli amici. Adesso, e da quando lei si è particolarmente concentrata nel disegnare nella vita e in televisione il personaggio di se stessa come quello di una “dark lady”, è un po’ di tempo che non la vedo. Ovviamente una delle foto di Rosangela in mostra, quella che ritrae Isabella avvolta unicamente in un paio di mutandine e come crocefissa (alle responsabilità e alle contraddizioni del suo esser donna) fa parte della mia collezione.
Impossibile che le due donne non si incontrassero, e nelle traiettorie della vita e nelle traiettorie dell’arte fotografica. Da quanto è prensile Rosangela nel catturare le identità femminili a partire dai loro corpi di donne, da quanto è vanitosa Isabella nel suo offrire se stessa al mondo meglio ancora se cucinata in salsa dark. Da donna a donna, difficile immaginare un rapporto più complesso di quanto sia il loro, lacerazioni e rotture ivi comprese e di cui ogni tanto ricevo da Rosangela gli echi. E del resto casa mia è come tappezzata dagli echi della sua religione del femminile, del suo inesausto rovistare in quegli abissi. Appena lei scopre e soppesa una modella che ne valga la pena, subito me manda una traccia fotografica. Al modo di una stazione di quella inesausta via crucis che è il suo viaggio fotografico attorno alla femminilità moderna.
Su tutte io mi sono fatto approntare dal designer mio amico DumDum un album che esaltasse le foto della più sublime delle modelle incontrate da Rosangela nella sua vita, la divina sua concittadina Angela Allegrezza, morta ventiduenne in un incidente d’auto. Era successo, ed era la prima volta che incontravo Rosangela, che lei fosse venuta nella mia vecchia casa romana di via della Trinità dei Pellegrini perché sapeva che ero particolarmente interessato all’arte della fotografia. Aveva portato con sé un gruzzolo di sue foto stampate in un formato piccolo e me le stava mostrando. Cominciai a sfogliarle a una a una e finché non ebbi un soprassalto. Innanzi a una foto che ritraeva la donna assieme la più bella e la più innocente che avessi mai visto, la cui nudità era irreale da quanto perfetto fino all’eccesso era il suo corpo, una ragazza che era come se cercasse di districarsi da un ambiente spoglio di chissà quale recesso della campagna italiana. Una ragazza che c’era, una ragazza che cercava una via d’uscita, una ragazza che si protendeva forte solo della sua bellezza. Rosangela aveva visto per la prima volta Angela Allegrezza in una discoteca di Cattolica dov’era in corso un’esibizione di vestiti di un giovane stilista, vestiti che a detta di Rosangela erano dei “non vestiti”, delle provocazioni che avrebbero fatto impallidire persino un Jean-Paul Gaultier. Rosangela la vide avvolta in uno di quei vestiti e “rimase di sasso”: “Senza essere impettita, aveva una grande sicurezza di sé”. Si dettero appuntamento per una seduta fotografica. Angela (che abitava a Senigallia) arrivò alla stazione di Rimini, dopo di che Rosangela la portò in una specie di castello diroccato a quindici minuti da Rimini. Chiese ad Angela di mettersi nuda, ciò che lei fece senza il minimo imbarazzo, e le chiese di andare nel modo più naturale sotto quegli archi mentre lei scattava, scattava, scattava. Lavorarono per un paio d’ore insieme ma in silenzio. Dopo di che Rosangela la riaccompagnò a casa a Senigallia. Non voleva tornasse in treno. “Sono le foto più belle che abbia mai fatto in vita mia mi raccontò. Mia prima musa. Innamorata da subito e per sempre nel mio cuore.”
La sequenza completa delle foto scattate alla dea marmorea in quelle due ore gliel’ho poi comprata tutta a Rosangela. Nell’album fattomi da Dum Dum ho messo in prima pagina la lettera mandatami da Mario Giacomelli, uno dei più grandi fotografi italiani del secondo dopoguerra, che di Angela Allegrezza era concittadino e che di lei aveva letto in un mio libro di oltre vent’anni fa. Lui che era un uomo non aveva avuto il coraggio di fotografare la Allegrezza, la quale pure glielo aveva chiesto. Perché troppo bella. Ci voleva la sensibilità di una fotografa donna per sopportare quella bellezza. A quando una mostra che celebri per come merita la ragazza che vagava nuda sotto gli archi dirupati?
GIAMPIERO MUGHINI